BOLOGNA – “Oggi penne panna e funghi, oppure penne al pomodoro. Di secondo c’è un po’ di formaggio, ma ‘vendilo’ poco perché abbiamo molto salume. Chiedi se vogliono il bis e dillo in cucina se lo chiedono, perché la porzione del bis è più piccola”. Un giorno a pranzo con grembiulino e guanti di plastica a servire ai tavoli del ristorante solidale più “circolare” d’Europa. Roberto Morgantini, che le ha fondate a Bologna (ma è già proiettato in Romagna, a Cesena e Cervia) le ha chiamate “Cucine popolari”. È una mensa “circolare” perché produce 300 pasti al giorno con prodotti donati dalla grande distribuzione, solo considerando la sede storica di via Battiferro. I pasti sono 600 considerando anche le altre sedi di via del Lavoro (San Vitale-San Donato), via Berti al Porto Saragozza e villa Paradiso in via Emilia Levante al Savena. Chi si mette a tavola alle Cucine? Bisognosi segnalati dai servizi sociali del Comune e rigorosamente residenti nel quartiere dove sorge la mensa. Più qualcuno del ‘giro largo’, come in questo periodo pasquale, che passa a prendersi un uovo tra i tanti invenduti che vengono distribuiti dopo la fine delle festività.







Morgantini, un passato in Cgil, con la moglie e un bel po’ di amici misero in piedi il giochino nel 2015. Stavano insieme da trent’anni, con due figli grandi. Si inventarono un matrimonio imprenditoriale, dove la lista nozze invece di Lisbona, Dubai o i Caraibi aveva come unica voce “contributo apertura Cucina popolare”. Alla fine raccolsero 60 mila euro. Primo miracolo. L’altro lo racconta Sandra Soster. Sì, proprio lei, l’assessore di Renzo Imbeni che lasciò la politica e l’Italia nel 1988 per amore di un principe arabo, che era poi un imprenditore egiziano. Ma insomma, quella è una vecchia storia. Poi c’è stato il ritorno in patria come insegnante, sindacalista, infine come volontaria al Battiferro. Fa fare un po’ di anticamera (sta facendo un colloquio a una ragazza che potrebbe collaborare) e poi racconta di un’azienda veronese che “aveva sbagliato qualcosa con l’etichettatura del salmone affumicato. Ci chiamano e ci chiedono se lo vogliamo per la mensa. Ma bisogna andare a prenderlo subito, è un fresco. Partono e vanno a prenderlo. Erano quattro quintali di salmone…”.
Al Battiferro ruotano 27 volontari al giorno dal lunedì al venerdì su due turni. Si apre alle 10: prima l’asporto fino a mezzogiorno. Tanti arrivano a prenderlo per più membri della famiglia. Sono 82 i nuclei seguiti dalle Cucine popolari al Navile. Poi ci sono quelli che mangiano seduti con piatti e posate dalle 12 alle 13. I numeri di un mercoledì feriale, quello dove abbiamo servito noi, recitano 250 pasti totali di cui 40 serviti a tavola. Quattro i camerieri per quaranta coperti. Dieci a testa, non c’è tempo per chiacchiere. Primo, bis, secondo, frutta, infine il dolcino. Una sola cosa manca: l’alcool. Niente vino (ma per chi ha lavorato un bicchiere c’è), al massimo ogni tanto “un po’ di aranciata” racconta un volontario, mentre un altro con felpa rossoblù del Bologna, brand tornato di moda dopo tanti anni, racconta di come papà andò a Roma a vedere la finale del 1964 anche se lui era appena nato. Sindrome da abbandono? Tutt’altro, “mi ha svezzato sotto la Torre di Maratona”.
Il nucleo duro del volontariato è gente forgiata dalle feste dell’Unità. Pentole, padelle, bidoni della spazzatura, riempimento caraffe dell’acqua. La catena di montaggio è rodatissima. Ma le Cucine, esperienza che nasce in ambito laico, aprono e si aprono a chiunque. “Abbiamo Adriano che viene da Mantova a fare il volontario qui- racconta Soster- fortuna che era un imprenditore e non ha problemi di soldi, ma manco la benzina gli possiamo passare. Un signore mi disse: ‘io le feste dell’Unità non le ho mai fatte, solo volontariato in parrocchia. Vado bene lo stesso?’”. Non mancano studenti delle scuole
medie coi loro professori, spesso più bravi dei loro docenti a servire, giovani universitari in Erasmus, o anche “tirocini sociali”, cioè persone in messa alla prova del Tribunale.
Arrivano i clienti della mensa. C’è Agostino che è una vecchia conoscenza e ha la passione di costruirsi complicati sistemi di amplificazione per la musica; un altro che se salta la pillola quotidiana “son guai perché perde l’equilibrio”. Due signori distinti vestiti di nero, uno col cravattino in tinta, che fanno parte della categoria lavoratori fragili. Gente in sostanza che ha perso reddito pur continuando ad avere un impiego. Uno dei due vende polizze assicurative, stava nel settore pubblicitario. La loro anagrafica è registrata, e una donna col pc portatile li accoglie e ne annota la presenza ogni giorno che entrano.
A Imola c’è un deposito del Banco Alimentare che riserva una parte del magazzino alle Cucine; Granarolo ha donato un camion frigo per la catena del freddo. Claudio, pensionato dell’informazione ed ex collega che ci fa da Cicerone, taglia corto: “Tutti i marchi della grande distribuzione, tranne uno forse, ci mandano le loro eccedenze o prodotti in scadenza ma ancora buoni”. Vien da chiedersi chi cura una logistica così complessa.
Lavorare, non pensare. “Togli i piatti, pulisci il tavolo col prodotto sanificante, asciuga e apparecchia con posate e tovagliolo per il prossimo che si siede”, prescrive Claudio. A fine mattinata mangiano i volontari. Arriva “Morgan”, e si crea quel piccolo vuoto che annuncia il leader. Ordina di avvicinare i tavoli rettangolari uno all’altro. “Ha le sue manie”, sibila qualcuno affettuoso. Alla fine il desco deve diventare un grande quadrato. Richiesto, Morgantini spiega: “Tutti devono guardarsi in faccia e nessuno deve dare le spalle all’altro”. Severo ma giusto. Così nasce una squadra.
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